Per capire come gira veramente il mondo.

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Editoriale

“Si vis pacem, para bellum”

Si crede erroneamente che per avere la pace occorra rinunciare alle armi e alla volontà di usarle. Questa è la fantasia tipica di un pacifismo ideologico e velleitario che non solo non ha fermato una sola guerra ma semmai ha contribuito ad iniziarla. Le guerre ci sono sempre state, come ci sono sempre state nazioni pronte a violare qualsiasi neutralità se i propri interessi lo richiedono e disposte a rinunciare ai loro propositi solo se il prezzo di una eventuale guerra è per loro troppo alto.

Nella seconda Guerra mondiale non sono state certo le banche a salvare la Svizzera ma la sua mobilitazione militare e la volontà di resistere ad oltranza tra le sue montagne, il che fece desistere la Germania dallo spendere forze in una campagna che non sarebbe stata prevedibilmente breve, in un momento in cui le sue divisioni servivano altrove. Anche oggi, sempre la Svizzera, affida ad un esercito moderno e bene armato la sua neutralità, che pure dura da 500 anni.

Parlare di armi, strategie e dottrine non è dunque una fissazione da “guerrafondai” ma una necessità, per una nazione che vuole vivere libera e indipendente, salvaguardando le sue conquiste, economiche e civili. Perché, come del resto l’Ucraina ha dimostrato, le armi sono necessarie, come la volontà di usarle, ma per averla questa volontà va formata e coltivata. Cosa che l’Italia ha rinunciato a fare da almeno 80 anni, diventando sempre più marginale perfino nel suo stesso “cortile di casa”: il Mediterraneo.

La guerra russo-ucraina ci ha insegnato molte cose. Una è che mai come in questo nuovo secolo vale il detto si vis pacem, para bellum. Se infatti gli ucraini avessero avuto un esercito efficiente, bene addestrato e dotato di armi moderne forse la Russia ci avrebbe pensato due volter prima di invaderla.

Un altro insegnamento è che dipendere per la propria difesa da altri è pericoloso. Sempre l’Ucraina ci ha mostrato che per non soccombere ha bisogno delle armi occidentali; armi che però sono arrivate col contagocce e non nella quantità necessaria. Il risultato è che la guerra si è impantanata causando uno stillicidio di morti, feriti e distruzione. Un discorso a parte meriterebbero poi gli obblighi cui l’Ucraina dovrà sottostare in futuro per ripagare gli Stati Uniti e l’Europa del sostegno ricevuto. Altra spiacevole conseguenza di chi rinuncia a difendersi o non è in grado di farlo da solo.

Noi italiani grazie a Dio abbiamo goduto di un lungo periodo di pace vivendo nell’illusione che mai più ci saremmo ritrovati in guerra. Certo, abbiamo vissuto la guerra fredda ma con la convinzione che nel peggiore dei casi tutto si sarebbe risolto in poche ore, col lancio di qualche centinaio di missili nucleari. Così, mentre da una parte è penetrato il visus pacifista del “meglio rossi che morti” dall’altra per decenni abbiamo destinato alla difesa solo qualche scampolo di bilancio, quanto bastava per mantenere uno strumento militare capace di resistere quel tanto per far arrivare, nel caso fossimo ancora vivi, gli americani a combattere al posto nostro.

Quando poi è finita la guerra fredda abbiamo addirittura pensato di smantellare buona parte del poco che avevamo, sempre cullandoci nell’idea che comunque ci sarebbe stata la Nato a difenderci.

Quanti però si sono chiesti cosa ci è costato l’aver delegato ad altri la difesa?

E comunque, nonostante la rinuncia a buona parte della nostra sovranità nazionale – e le basi americane sul nostro territorio sono lì a ricordarcelo – in guerra ci siamo comunque dovuti andare ugualmente – e come potevamo rifiutarci? –: contro la Serbia nel 1999, in Somalia, in Iraq, in Afghanistan. Interventi costati parecchio sangue italiano in termini di morti e feriti e anche un bel po’ di miliardi. Guerre che comunque non abbiamo mai avuto il coraggio di chiamare col loro nome.

Un altro insegnamento che ci ha fornito la guerra in Ucraina è che più importante delle armi è avere la determinazione di usarle. È questa la vera deterrenza, la vera assicurazione contro la guerra. La Svizzera non ha vissuto in pace per cinquecento anni grazie alle sue banche ma perché chi l’avesse invasa si sarebbe trovata di fronte un intero popolo in armi con la prospettiva di pagare un costo assai elevato.

Purtroppo noi da ottant’anni a questa parte abbiamo dimostrato al mondo che la determinazione a difendersi non l’abbiamo più. Ormai nel nostro Paese si è radicato un pacifismo ideologico e velleitario, avallato anche dalla politica che per far finanziare nuove navi per la Marina militare, ad esempio, si è ipocritamente inventata il dual use, ovvero mezzi da destinare alla protezione civile e agli interventi umanitari più che alla difesa armata, col rischio di non essere buone né per l’uno né per l’altro compito.

Il risultato di tutto ciò è che oltre ad essere militarmente poco armati siamo pure moralmente e psicologicamente inermi, tanto che nonostante il mondo intero sia in ebollizione ancora oggi tutto ciò che ha a che fare con la difesa è per noi tabù e chi parla di questioni militari è bollato come guerrafondaio.

Ma è proprio questo pacifismo il peggior nemico della pace.

Come se volessimo far desistere dai propri propositi un malintenzionato che entrasse in casa nostra a suon di qualche predicozzo. E di possibili malintenzionati fuori dalla porta di casa nostra ce ne sono tanti.

Ricordiamoci che l’Italia è protesa nel Mediterraneo, un mare strategicamente caldo, cerniera tra l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente, aree in perenne stato di crisi, e dove la Turchia sta mostrando velleità espansioniste mentre al di là dell’adriatico i Balcani, rischiano di incendiarsi nuovamente da un momento all’altro per non parlare di una Russia che appena rimarginate le ferite potrebbe volersi rifare della brutta figura con l’Ucraina invadendo qualche altro Paese per dimostrare al mondo di essere ancora una grande potenza.

Detto questo ci pare importante ricominciare a parlare di geopolitica e difesa, perché non tutti sono consapevoli che la politica internazionale e soprattutto il mantenimento della pace molto dipendono dallo strumento militare di cui sono dotati gli attori in campo.

In secondo luogo è importante riaccendere un po’ di amor patrio – che non ha nulla a che fare con lo sciagurato nazionalismo – in un popolo troppo avvezzo all’autodenigrazione, sfatando il pregiudizio – anche questo responsabile, almeno in parte, del nostro disarmo psicologico – secondo il quale l’Italia è un Paese imbelle, che da Lissa in poi non ha mai vinto una battaglia e che ricorda la guerra del 1915-‘18 più per la “disfatta” di Caporetto che per la sua indiscussa vittoria sull’Austria-Ungheria, senza la quale inglesi e francesi starebbero ancora a spararsi dalle trincee.

Ecco, in poche e non esaustive parole, il motivo di questa rivista, la cui ragion d’essere è tutta qui: si vis pacem, para bellum.